Pin It

 

Mangiare bere uomo donna

Regia: Ang Lee

Taiwan 1994.

Genere Commedia drammatica,

CAST:

Sihunglung, Yang Kuei-Mei, Wu Chien-Lien, Yu-Wen Wang, Lester Chen.

 

Taiwan. Anni ’90. Un anziano vedovo, cuoco sopraffino che ha perso la capacità di sentire i sapori, si ritrova ad affrontare i tormenti esistenzial-sentimentali suoi e delle sue tre figlie, oramai in età da marito, con le quali riesce in qualche modo a comunicare solamente davanti ad una tavola riccamente bandita, durante le proverbiali e pesantissime cene domenicali.

Un tripudio di sensi. In tutti…i sensi. Primo tra tutti, il gusto. Fin dalle primissime scene si vedono infatti le esperte mani dell’anziano cuoco tritare, tagliuzzare, affettare, preparare con la massima cura le coreografiche pietanze dell’antica tradizione cinese, seguendo rituali immutati nel tempo. Sullo sfondo una gigantesca cucina professionale, dotata di ogni possibile strumento, pentola e canestro utile: il regno inviolabile dove il vecchio leone si rifugia ogni volta che può.

Si resta incantati ad osservare la velocità ed allo stesso tempo la perizia con cui il cuoco esperto esegue per ore ogni singola operazione, senza errori né esitazioni, intento a preparare una succulenta e luculliana cena per il consueto – ed immancabile – incontro domenicale con le tre figlie. Subito si intuisce che tra il padre e le ragazze la comunicazione scarseggia: vuoi per differenze generazionali, vuoi per una forma di pudore (in Cina i rapporti troppo affiatati tra padri e figlie femmine sono considerati sconvenienti), ma soprattutto per la prematura scomparsa della madre (morta 16 anni prima), che con ogni probabilità faceva da trait d’union in famiglia.

Ma la tavola imbandita è una vera e propria festa per gli occhi. Vi è ogni genere di pietanza ed i piatti sono guarniti in mille forme e colori, ma – e questa è una costante che si manterrà per tutto il film – gli attori non mangiano: alcuni mordicchiano qualche boccone, altri, spesso perché presi dai propri pensieri, giocherellano con le bacchette di legno e poi allontanano il piatto. Nel film il cibo si vede, di cibo si parla, ma raramente lo si mangia. Tutto questo concorre ad accrescere l’effetto “acquolina in bocca”, o meglio, l’eccitazione nello spettatore: un po’ come nelle scene di suspense nei thriller, in cui la musica si fa sempre più enfatica e la scena sempre più tesa, ma non si riesce mai a vedere il volto dell’assassino. Mentre la camera indugia su faraoniche pietanze, su veri e propri rituali di preparazione, tra fuochi, fumi, carne, olio, vapore, erbe, spezie ed antiche tecniche, lo spettatore si scopre rapito e quasi avverte il profumo dei cibi, che a tratti sembra portare ad un rapimento sensuale.

Frequenti i richiami al sesso, alla carnalità – uno tra tutti è la scena in cui una delle figlie ha un rapporto sessuale con l’amante, cui si sovrappone quella in cui il padre soffia con forza nella pancia di un grosso tacchino spennato che tiene appeso per le zampe per inserirvi il ripieno. Infatti il titolo del film è in realtà un antico detto cinese, che molto efficacemente riassume i quattro elementi vitali e fondamentali di ogni persona. Yin e yang. Sesso e cibo; dove il cibo serve a sostenere la vita ed il sesso a perpetuarla.

In questa alchimia di sensi, colori e sapori, si intrecciano le vicende personali dei protagonisti: ognuno di essi alla fine del film trova la propria strada, passando però attraverso una catartica trasformazione, sciogliendo il nodo dell’incomunicabilità ed abbattendo il muro dell’incapacità di esprimere l’amore.

Intorno alla tavola si piangono defunti (il più caro amico nonché collega del vecchio padre), si rimpiangono amori passati (veri o inesistenti), ci si innamora, si crescono bambini (propri e altrui), si corre da una parte all’altra per consegnare il cestino della merenda a scuola, ci si inzuppa sotto a piogge monsoniche, si fanno annunci scioccanti (geniale il matrimonio, d’amore, tra il vecchio cuoco e la giovane amica di famiglia), si ritrova il gusto per il cibo e per l’amore, si ama e si (re)impara ad amare. Perché, come dice lo stesso anziano cuoco alla grande famiglia “allargata”, ancora una volta riunita attorno alla tavola: “Vivere non è come cucinare, perché non sempre possiamo permetterci di aspettare che gli ingredienti siano pronti per iniziare la cottura”.

Silvia Lucidi